Una prospettiva cognitivista in tema di panico e di agorafobia

di Francesca Mauro 17/05/2012

Paola è una ragazza di 25 anni, iscritta alla facoltà di psicologia; è fidanzata ed ha alcuni amici con i quali trascorre il tempo libero. Da oltre un anno conduce un’esistenza connotata da forti limitazioni: non usa l’autobus, né il treno, né la metropolitana; non utilizza l’ascensore; ha progressivamente ridotto le occasioni per fare visita ai parenti in campagna e non guida più l’automobile se questo significa allontanarsi dal luogo dove risiede;  pertanto si reca all’Università solo a condizione di essere accompagnata in auto da un familiare. Paola avverte la presenza di un persistente stato di ansia legato al timore di morire e/o di impazzire.
La paziente in questione presenta un disturbo di panico con agorafobia diagnosticabile a partire dai seguenti criteri indicati dall’A.P.A. (2001).
Si definisce panico un periodo circoscritto di paura o disagio intensi, durante il quale quattro (o più) dei sintomi indicati dal DSM IV (tachicardia, sudorazione, tremori, sensazione di soffocamento, sensazione di asfissia, dolori al petto, nausea o disturbi addominali, sensazione di sbandamento, instabilità, testa leggera, svenimento, sensazione di irrealtà, paura di perdere il controllo o di impazzire, paura di morire, sensazione di torpore o di formicolio, brividi o vampate di calore) si sono sviluppati improvvisamente ed hanno raggiunto il picco nel giro di 10 minuti.
Il termine agorafobia indica l’ansia indotta dal trovarsi in situazioni o luoghi dai quali sarebbe difficile (o imbarazzante) allontanarsi o dove potrebbe non essere disponibile alcun aiuto nel caso di un attacco di panico inaspettato. I timori agorafobici riguardano tipicamente situazioni caratteristiche che includono essere fuori casa da soli; trovarsi in mezzo alla folla o in coda, attraversare un ponte o viaggiare in autobus, treno o automobile. Le situazioni vengono evitate (per es., gli spostamenti vengono ridotti), oppure sopportate con molto disagio o con l’ansia di avere un attacco di panico, oppure viene chiesta la presenza di un compagno.
Il disturbo di panico con agorafobia è pertanto diagnosticabile nei casi di attacchi di panico inaspettati ricorrenti e quando almeno uno degli attacchi è stato seguito da un mese (o più) di uno (o più) dei seguenti sintomi: preoccupazione persistente di avere altri attacchi, preoccupazione a proposito delle implicazioni dell’attacco o delle sue conseguenze, significativa alterazione del comportamento correlata agli attacchi; presenza di agorafobia.
Nel caso preso in esame sono presenti, in sintesi, i seguenti sintomi: attivazione neurofisiologica tipica della reazione di ansia (tachicardia), paura di morire (di infarto), persistente preoccupazione che il disturbo possa tornare. Gli attacchi di panico rinviano a situazioni tipiche, connotate da solitudine (lontananza da luoghi e persone familiari) e da costrizione (permanenza in spazi chiusi quali treno, metropolitana). Paola ha sperimentato alcuni attacchi di panico molto intensi ai quali ha reagito evitando le situazioni temute.
Il modello cognitivo del panico di Clark, integrato da Salkovskis, descrive l’attacco di panico come circolo vizioso, evidenziando le dinamiche di insorgenza e di mantenimento del disturbo a partire da uno stimolo (interno o esterno) percepito come grave minaccia e in quanto tale in grado di ingenerare uno stato d’ansia reso manifesto da tipiche risposte mentali e somatiche; si ritiene, in particolare, che l’attacco insorga quando  l’individuo giudica pericolose alcune tra queste  reazioni corporee e mentali, legate all’attivazione neurofisiologica e per loro natura innocue, interpretandole invece come segnali di catastrofe imminente (ad es. la tachicardia come indizio di possibile infarto, la vertigine come segnale di svenimento improvviso, lo stato di confusione come prova di perdita di controllo o impazzimento). Una volta verificatosi l’attacco di panico, intervengono fattori ulteriori in grado di mantenere ed aggravare il disturbo; particolare attenzione verrà dedicata ai fattori in questione, ambito privilegiato dell’intervento psicoterapeutico.
Nel caso preso in esame sono individuabili, più nel dettaglio, alcuni processi di natura intrapsichica: evitamenti veri e propri di situazioni ansiogene (non usare la metropolitana; non frequentare zone rurali lontane da ospedali); evitamenti sottili nella forma di distrazioni (telefonare al fidanzato nei contesti in cui si sperimenta ansia); fughe da situazioni ansiogene non appena si manifesta l’attivazione  neurofisiologica (scendere dalla metro); comportamenti protettivi tesi a prevenire la minaccia (avere sempre con sé le gocce, farsi accompagnare) o a gestire l’allarme in atto (sdraiarsi a terra nel momento in cui l’ansia sta per diventare panico); l’alta sensibilità soggettiva alle variazioni dell’attività neurofisiologica, alla base del processo di attenzione selettiva indirizzato al controllo delle variazioni di questa stessa attività (in particolare al ritmo cardiaco); il rimuginio (inteso come riflessione, reiterata e pervasiva, su possibili minacce future), in grado di alimentare l’attenzione selettiva di cui sopra e i controlli mirati alla verifica del buon funzionamento delle capacità cognitive, il cui esito è la permanenza di un persistente stato di minaccia e di conseguente allarme (aggravato, tra l’altro, dalla credenza che la comparsa del rimuginio sia di per sé indizio di anormalità e instabilità mentale). Sono inoltre individuabili emozioni e contenuti di pensiero relativi alla valutazione formulata dal soggetto sulla sua stessa reazione ansiosa, presenti nel momento in cui la paziente si vergogna per avere provato ansia e/o interpreta la tendenza a sperimentare ansia come indizio di debolezza; valutazioni che contribuiscono a mantenere il disturbo alimentando la condotta di evitamento (nel tentativo di sottrarsi al giudizio altrui) e attivando un circolo vizioso che ha l’effetto di confermare Paola nella percezione di essere persona debole, in quanto tale maggiormente esposta alla perdita di controllo e al panico e pertanto obbligata a mettere in atto ricorsive (e disfunzionali) strategie di controllo.
Tra i processi di natura interpersonale emergono le risposte date dagli altri alle manifestazioni ansiose di Paola; in particolare, genitori e fidanzato assecondano regolarmente la paziente quando chiede di essere accompagnata.
I comportamenti protettivi appena esposti, conseguenze cognitive ed emotive tipiche del disturbo di panico, si rivelano capaci di rafforzare le convinzioni catastrofiche all’origine dell’attacco di panico, impedendo al soggetto di mettere in discussione queste stesse convinzioni; viene così impedito il processo di invalidazione delle credenze secondo cui alcune situazioni sono per loro natura pericolose, non si hanno capacità e strumenti propri per affrontarle ed è pertanto necessaria la presenza di altri in grado di rassicurare o prestare soccorso. Evitando le situazioni temute, il soggetto conferma infatti l’originaria convinzione che queste siano pericolose e attribuisce pertanto lo scampato pericolo all’efficacia delle strategie difensive di volta in volta adottate.
Strategie difensive siffatte risultano fortemente invalidanti, poiché  limitano progressivamente l’esistenza dell’individuo impoverendola e, come nel caso di Paola, sono in genere all’origine del senso di tristezza e/o frustrazione che spinge l’individuo stesso a chiedere aiuto. Evitamenti e comportamenti protettivi agiscono dunque come potenti fattori di mantenimento del disturbo: si tratta infatti di tentativi di soluzione adottati dal soggetto in risposta alla sintomatologia ansiosa che si rivelano in realtà dinamiche in grado di aggravare e cronicizzare il disturbo.
Un accenno alla personalità della paziente: Paola presenta tratti di personalità dipendente. Ha maturato un forte bisogno di controllo teso a prevedere l’andamento degli eventi; teme i distacchi e i cambiamenti, la fine di qualcosa di conosciuto e la prospettiva di ciò che non conosce; quando qualcosa finisce non può prevedere come andranno le cose; il termine imprevedibilità è spiegato come la possibilità che accada qualcosa, ma di sicuro segno negativo.
Il comportamento di Paola appare nel suo complesso guidato dall’obiettivo primario di non restare sola, per la cui realizzazione persegue gli scopi strumentali seguenti, in grado di assicurarle l’affetto e la prossimità dell’altro: essere fidanzata (realizzato attraverso la scelta di ragazzi pazzi di lei e che l’accettano incondizionatamente; per Paola conta più essere accettata che davvero innamorata; non è mai lei a lasciare il partner e anzi tollera ciò che nella relazione non funziona proprio per paura di restare sola) e fare la brava figlia e la brava studentessa (reso possibile dalla realizzazione delle aspirazioni genitoriali, seppure in contrasto con le proprie inclinazioni).
La condizione di solitudine cui fa riferimento Paola costituisce uno scenario tanto temuto (e dunque fortemente evitato) in quanto si caratterizza come situazione nella quale si percepisce incapace di affrontare la vita senza il supporto altrui.
L’analisi delle condizioni predisponenti l’ansia mette in luce il ruolo svolto da alcuni eventi di vita in grado di farla sentire maggiormente esposta  al rischio di ritrovarsi nella condizione di solitudine tanto temuta; sono individuabili, in particolare, il conseguimento del diploma di scuola media superiore (accompagnato da un vissuto di vuoto profondo), la fine della prima storia sentimentale importante, l’iscrizione all’università contro la sua volontà e per assecondare l’aspirazione dei genitori.
Nel caso specifico la relazione terapeutica è stata  scandita dalle seguenti fasi .
– Formulare il contratto procedendo all’individuazione e condivisione degli obiettivi in base ai quali orientare la fase di intervento.
– Definire l’ansia individuando le reazioni  fisiologiche, comportamentali, emotive e i contenuti di pensiero ad essa correlati; delineare il processo che induce l’attacco di panico a partire da quegli stessi pensieri.
– Approfondire l’indagine su natura e ruolo delle credenze patogene indagando, tra l’altro,  contenuti e funzioni del rimuginio emerso dall’analisi degli episodi di ansia (segnatamente in relazione all’ansia riferita al timore di impazzire).
– Individuare evitamenti e comportamenti protettivi in vista di graduali “esposizioni in vivo” (esperienze della paziente nella vita reale) nel corso delle quali inibire le strategie di mantenimento utilizzate, rendendo possibile l’invalidazione delle credenze disfunzionali. In tale contesto, individuate alcune situazioni meno ansiogene di altre, ma comunque fino ad allora evitate, la paziente si è resa disponibile ad affrontare una quota di ansia inibendo il comportamento protettivo o l’evitamento usualmente adottato nella situazione data.  L’intervento ha previsto la definizione di un piano di esposizioni progressive programmate in grado di consentire alla paziente di affrontare situazioni tradizionalmente ansiogene senza fuggire, né fare ricorso a protezioni esterne.
– Ricostruire la storia di vita individuando vulnerabilità e risorse in vista di possibili ricadute.
Il trattamento del disturbo di panico e dell’agorafobia poggia sull’assunto che la sintomatologia ansiosa sia frutto di interpretazioni catastrofiche ed irrealistiche della realtà destinate a rinforzarsi a seguito dell’attivazione di comportamenti protettivi messi in atto dal paziente in risposta a questa stessa sintomatologia. La modificazione e l’invalidazione di tali credenze patogene costituiscono pertanto il focus dell’intervento psicoterapeutico, la cui fase iniziale fa esplicito riferimento alla  concettualizzazione dell’ansia in termini di emozione.
Se l’ansia è un’emozione (e come tale presente in ogni individuo) è possibile inquadrare la risposta sintomatologia del paziente in un quadro reattivo coerente con la percezione della presenza di una minaccia imminente, mettendo altresì in discussione la convinzione che tale risposta sia conseguenza di un’irragionevole perdita di controllo. Un intervento di tale natura si rivela inoltre in grado di mettere efficacemente in discussione la credenza di sé come persona geneticamente debole o anormale, proprio in quanto affetta da attacchi di panico.
In tale contesto, mettere in evidenza la relazione causale esistente tra i contenuti di pensiero e la reazione d’ansia contribuisce a normalizzare questa stessa reazione evidenziando, in particolare, come ciò che accade non sia fuori dall’individuo, ma dipenda al contrario dalla personale interpretazione data dall’individuo stesso agli eventi in corso.

Dott.ssa Francesca Mauro

Bibliografia

American Psychiatric Association  (A.P.A.) (2001), DSM- IV- TR. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Milano, Masson.
Gragnani A. –  F. Mancini (2008), Il disturbo di panico e l’agorafobia, in C. Perdighe – F. Mancini (Eds.), Elementi di psicoterapia cognitiva, Roma, Giovanni Fioriti Editore, 85-108.
Leveni D. – D. Piacentini (2000), La terapia cognitivo-comportamentale dei disturbi d’ansia, in R: Lorenzini – S. Sassaroli , La mente prigioniera. Strategie di terapia cognitiva, Milano, Raffaello Cortina Editore, 283-309.
Pradella F. (2006), Il disturbo da attacchi di panico, in S. Sassaroli – R. Lorenzini – G.M. Ruggiero (Eds.), Psicoterapia cognitiva dell’ansia. Rimuginio, controllo ed evitamento, Milano, Raffaello Cortina Editore, 255-271.