Alleanza terapeutica ed esito della psicoterapia
di Gabriella Reda 14/01/2014
Talvolta noi psicoterapeuti ci imbattiamo in un problema costituito da molteplici interrogativi sull’efficacia del trattamento. Ci chiediamo se il fallimento terapeutico sia dovuto ad una nostra imperfezione nel mettere in pratica la tecnica o se sia dovuto alle nostre “debolezze umane”, in seconda istanza ci rassegniamo ad un probabile (e spesso accertato) limite patologico del paziente.
Il rapporto con il paziente è fondamentale per un buon esito della psicoterapia ma diverse variabili entrano in gioco: la personalità e la patologia del paziente, la personalità del terapeuta, il transfert, l’empatia, le emozioni, lo stile di attaccamento, i meccanismi di difesa e le resistenze dei due attori.
Secondo Roth e Fonagy (2004) piuttosto che trattare l’alleanza terapeutica come un concetto singolo, essa va vista come un mezzo attraverso il quale differenti aspetti del processo terapeutico operano in differenti momenti della terapia.
Il terapeuta capace di costruire un rapporto basato su empatia, supporto e validazione può influenzare positivamente il buon esito della psicoterapia stimolando motivazione e collaborazione al trattamento. Carl Rogers (1957) sosteneva che l’empatia del terapeuta fosse il migliore predittore di esito. (Trattamento integrato: un impianto concettuale per un approccio evidence-based al trattamento dei disturbi di personalità – in Quaderni di Psicoterapia Cognitiva, n.33/2013). La flessibilità e la creatività, la fiducia e la franchezza, la capacità di essere di conforto nel lungo periodo e l’abilità di padroneggiare i sentimenti positivi e negativi suscitati dal paziente e dal trattamento sono variabili fondamentali de terapeuta. Molto spesso però molte delle caratteristiche del paziente, associate a dei buoni esiti, ostacolano la formazione di un’alleanza positiva come le scarse abilità sociali, le relazioni oggettuali compromesse, le scarse relazioni del nucleo familiare, il pessimismo e il senso di “inaiutabilità”, il comportamento difensivo, la bassa capacità psicologica, l’ostilità, il perfezionismo (ibidem, p. 24)
Riportiamo qui di seguito una ricerca a cura di Castonguay e collaboratori (2006) che hanno indicato una serie di dati centrali per una riflessione clinica sull’alleanza terapeutica:
1. Il dato più forte, rilevato da numerosi studi, è che l’alleanza correla positivamente con il cambiamento terapeutico (Horvath & Symonds, 1991; Horvath & Bedi, 2002; Lingiardi, 2002; Martin, Garske, & Davis, 2000).
2. La letteratura indica che la qualità dell’alleanza correla positivamente con alcune caratteristiche del paziente (per esempio la capacità di mentalizzazione, le aspettative di cambiamento, la qualità delle relazioni oggettuali, ecc.) e negativamente con altre (per esempio l’evitamento, le difficoltà interpersonali, i pensieri depressivi ecc.; vedi Costantino, Castonguay, & Schut, 2002).
3. Alcune caratteristiche e comportamenti del terapeuta sono associati negativamente con la qualità dell’alleanza (per esempio la rigidità, l’essere critici, la self-disclosure inappropriate ecc.; vedi Ackerman & Hilsenroth, 2001). Anche in questo caso vi sono studi (Castonguay, Goldfried, Wiser, Raue, & Hayes, 1996; Piper, Ogrodniczuck, Joyce, & McCullum, 1999) che pongono l’accento sulla capacità del clinico di gestire e negoziare la relazione. È infatti probabile che non siano queste caratteristiche del clinico in sé a incidere negativamente sulla qualità della relazione, ma piuttosto sono aspetti che possono influire indirettamente sulla qualità dell’alleanza: di fronte ad una rottura nell’alleanza o ad un’empasse, il terapeuta può aumentare o irrigidire l’aderenza alla propria tecnica o modello di riferimento, non riuscendo così a riparare la rottura o, anche, esacerbando l’empasse.
4. Vi sono evidenze che suggeriscono come la qualità dell’alleanza sia particolarmente predittiva dell’esito quando misurata nelle fasi precoci del trattamento mentre, di converso, un’alleanza debole può essere predittiva di dropout (vedi Costantino, Castonguay, & Schut, 2002). Clinicamente è un dato che indica la necessità per il clinico di monitorare la relazione fin dal primo momento. “Piuttosto che assumere che problemi iniziali di collaborazione o segni precoci di disimpegno diminuiranno automaticamente con il tempo”, dicono Castonguay et al. (2006, p. 273), “il terapeuta dovrebbe iniziare a sostenere l’alleanza fin dal primo minuto della terapia ed essere preparato a rivolgersi alle rotture non appena si presentano”.
5. Infine, come risultato delle numerose ricerche sull’alleanza, abbiamo ora a disposizione una serie di strumenti per misurare questo costrutto da una varietà di prospettive (paziente, terapeuta, osservatore esterno) (per una descrizione dettagliata dei diversi strumenti rimandiamo a Costantino, Castonguay, & Schut, 2002; De Bei, 2006; Lingiardi, 2002). Tra questi, alcuni sono ancorati alla tradizione psicoanalitica, altri, come il WAI (Working Alliance Inventory di Horvath e Greenberg 1989), sono stati sviluppati a partire da un’ottica trans-teorica.
L’alleanza può essere dunque misurata in ogni forma di terapia e il terapeuta non dovrebbe limitare la valutazione della qualità dell’alleanza solo alle prime fasi della terapia ma piuttosto è un compito che il terapeuta dovrebbe assumersi per tutto il corso della relazione terapeutica (Safran, Muran, Samstag, & Stevens, 2002).
Pertanto, gli studi recenti sull’efficacia della Psicoterapia confermano i dati che la letteratura ci fornisce: una terapia di successo aumenta le capacità di buon funzionamento della personalità del paziente, riduce i tratti di personalità patologici e matura complessivamente lo stile difensivo.
Fonti:
“Decostruire la relazione terapeutica per ricostruirla” di Francesco De Bei, Antonello Colli e Vittorio Lingiardi
“Trattamento integrato: un impianto concettuale per un approccio evidence-based al trattamento dei disturbi di personalità” – in Quaderni di Psicoterapia Cognitiva, n.33/2013
Ricerca: Waldron, Scharf, Hurst et al., 2004; Waldron, Scharf, Crouse, Firestein, Burton, & Hurst, 2004; Waldron & Helm, 2005